L’elaborazione del trauma del terremoto è un meccanismo collettivo

Se ieri non ci fosse stato stato l’incontro “Storie di giustizia” al ridotto del Teatro, al 6 aprile sarebbe mancato qualcosa.

Insieme abbiamo ripreso a tessere un filo su cui lavoriamo da quattordici anni, portando avanti la lotta per la verità e la giustizia per quanto accaduto nel terremoto dell’Aquila, dentro e fuori le aule di tribunale.
Sono quattordici anni che ci impegniamo a fare memoria e tenere alto il ricordo di quanto accadde e di chi da quella notte non c’è più. Da quando con i Comitati dei parenti delle vittime e il Comitato 3e32 organizzammo la prima fiaccolata il 6 luglio del 2009, a tre mesi dal sisma, e poi quella del 6 aprile 2010. Da allora la fiaccolata silenziosa è divenuto il primo modo di celebrare l’anniversario, il primo dispositivo culturale messo in campo e successivamente istituzionalizzato.

Ieri però per la prima volta dopo quattordici anni ho sentito chiaramente anche qualcos’altro, una maggiore apertura, capacità e “serenità” nel parlare di sé e raccontare di quanto ci è successo e di cosa questo significa dopo tutto questo tempo.

E’ come se finalmente la comunità aquilana avesse iniziato ad elaborare il trauma del terremoto, come se quell’immenso, inevitabile magone di rabbia, angoscia e frustrazione che il dolore comporta si sia iniziato a sciogliere leggermente per far spazio ad un pensiero più profondo, articolato e libero. Qualcosa di possibile solo se quella sofferenza, troppo spesso implementata da sentenze giudiziarie del tutto insoddisfacenti, la si è almeno in parte attraversata.

Così come la memoria, sappiamo, è un ingranaggio collettivo, allora anche l’elaborazione lo è. E non avviene per magia né semplicemente col tempo. C’è bisogno di una volontà attiva e di dispositivi simbolico-culturali che aiutino a farlo, opponendosi alla tentazione forte della rimozione o a quella disperata di lasciarcisi affogare nel dolore.

In questo senso il Parco della memoria, OTTENUTO DOPO 12 ANNI dopo una lunga lotta condotta in prima linea dall’indimenticabile Antonietta Centofanti, sta facendo sicuramente il suo effetto, dando un contenitore alla sofferenza e riducendo la distanza tra chi ha perso di più col terremoto (in certi casi tutto) e chi in città ha sempre avuto fretta di rimuovere il sisma per andare subito avanti, come se questo fosse possibile, come se quella polvere di macerie si potesse mettere sotto il tappeto della città senza farsi ostacolo insormontabile.

Così, adesso che 309 nomi sono stati scritti in maniera indelebile in un luogo della città appositamente dedicato e istituito, chiamato “Parco della memoria”, nell’incontro al teatro ho ascoltato per la prima volta Ilaria dire “io voglio smettere di vivere con l’etichetta di parente delle vittime addosso”. Così come nell’ armonico quanto avvolgente suono dell’acqua che sgorga dalle fontane del Parco della memoria, in una bella iniziativa di “open mic” del 6 aprile, ho sentito parlare di “diritto alla felicità” per tutte e tutti, per L’Aquila, anche per chi ha perso di più, anche quando hai ancora sentenze pesanti che bruciano come quella choc dello scorso ottobre che attribuisce il 30% di responsabilità alle vittime stesse.

Temi quasi tabù fino a un anno fa. Ora anche il giorno dell’anniversario è come si iniziassero a vedere anche le persone dietro il dolore. Vedo per esempio un giovane Federico saper moderare sapientemente un incontro complesso ed efficace che parla tanto di sé e del suo dolore. Persone queste che hanno perso molto col sisma e oggi sono capaci di dire cose profonde di loro stesse anche pubblicamente, aiutando tutte e tutti a parlare liberamente e ad attribuire senso a quanto accaduto, a capire meglio cosa ancora serve e come sia possibile andare avanti.

Significa rinunciare alla verità e alla giustizia e alla costruzione di memoria? Nient’affatto! Significa farlo ancor meglio, con più mezzi e maggiore profondità e capacità di pensiero e azione collettiva. I tempi sono più che maturi ad esempio per la costruzione anche di una casa della memoria che contenga anche la storia delle lotte del post sisma, storicizzandole senza farle scomparire dietro le narrazioni imposte dall’alto. Perché sono quelle lotte, così lontane dalle spille e le sfilate odierne, che ci hanno portato ad essere comunità e permesso di affrontare il dolore.

E’ così che partecipando alla fiaccolata, all’open mic al piazzale della memoria e all’incontro di storie di giustizia ho pensato che finalmente una sorta di “terapia di comunità”, difficoltosamente portata avanti nel tempo, ha iniziato a funzionare. Essa nient’altro è che la nostra storia comune dal 2009, perché come collettivo è il trauma del terremoto, solo collettiva – interconnessa – può essere una vera elaborazione che può permetterci di fare memoria e andare avanti come comunità.

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