Progetto case, il Comune brancola nel buio. Non sa chi ci abita e ha un debito di 20milioni

Martedì scorso si è tenuta l’attesa Terza commissione consiliare sul patrimonio abitativo del Comune dell’Aquila, leggasi anche Progetto case e Map.

Diciamolo subito: il debito complessivo che, a detta dei tecnici, grava sul Comune in conseguenza del Progetto case è di 20milioni!

Utenze (gas centralizzato e condominio) non pagate per 5,9 mln, 6,8milioni i canoni di compartecipazione che i residenti non sfollati del sisma dovrebbero pagare e 3,6 i canoni di compartecipazione che dovrebbero pagare anche gli sfollati dal terremoto del 2009, più altri 4,5mln da emettere nell’imminente che riguardano tutte e tre i capitoli di spesa appena indicati.

Insomma molti di coloro che vivono nei 2883 appartamenti CASE e i gli 857MAP attualmente agibili non pagano tutto ciò che la proprietà , cioè il Comune, gli chiede di pagare. Sono morosi.

Comune che, per fare un esempio, nel 2021 ha emesso  bollettini pari a 1.544.000€ di canone di compartecipazione e 2.025.000€ di canone locazione, incassandone 973.000 di canone compartecipazione e di 1.193.000 canone locazione, sostenendo spese per 4milioni comprese quelle per l’accordo quadro (1.300.000€) e le pulizie (400.000€).

Ma il dato che più di tutti rende l’idea dello sbando totale dell’Amministrazione viene da una piccola novità introdotta. Come ha raccontato in Commissione l’ingegner Mario Bellucci, in un primo momento il Comune chiedeva agli inquilini i soldi che aveva anticipato ai fornitori di energia per le utenze tramite delle normali lettere (che possono sempre essere cestinate). Poi da dicembre 2021 ha investito (incredibile!) e deciso di inviare raccomandate A/R.

Bene, nel dicembre 2021 su 3471 raccomandate inviate, 1574 sono tornate indietro pari al 45%. Peggio è andata a luglio 2022 quando su 3320 invii 2372 sono tornate indietro (71%).

Il Comune non sa chi abita nei progetti Case.

In più non sa nemmeno se gli appartamenti liberi sono realmente utilizzabili. 

Esiste infatti tra i dirigenti una questione legata alla sicurezza, vista la mancata manutenzione dopo 13 anni. Tema particolarmente vivo in seno al Comune aquilano dopo la tragedia avvenuta presso l’asilo pubblico Primo Maggio, in cui si stanno accertando una serie di gravi responsabilità.

Il pericolo sarebbe legato agli impianti elettrici e alle linee vita in corrispondenza delle coperture dove sono gli impianti fotovoltaici, che a loro volta devono essere ricertificati o forse rifatti da capo, così come andrebbero ricertificati gli isolatori sismici.

I tecnici lamentano anche una difficoltà a poter entrare nelle case abitate a fare i controlli  e allo stesso tempo troppe chiamate superflue legate al funzionamento degli elettrodomestici, gli stessi riguardo ai quali l’Amministrazione ha paura, con le prese della corrente e tutto, – visto la non manutenzione – risultino pericolosi.

Ma non è che a questo Progetto Case va cambiato proprio lo statuto?

Sorti appena dopo il sisma per dare risposta abitativa agli sfollati in un’ottica profondamente assistenzialista, marcata da quel tocco di Berlusconismo che a favor di telecamere mostrava gli appartamenti iper arredati e pronti per l’uso. Ma col tempo il Comune dell’Aquila, per quante task force voglia costituire (e intendiamoci servirebbero come servirebbe un assessorato specifico), non può occuparsi degli elettrodomestici, degli arredi e di ogni singolo particolare. Il Comune dell’Aquila si deve occupare di garantire il diritto all’abitare sociale dei cittadini che ne hanno bisogno.

“E’ una questione sociale” ripeteva l’assessore Colonna durante la commissione. “”Se io ora devo spostare delle famiglie potrei non sapere più dove metterle”, dura epifania che viene al pettine.

Quanti di questi appartamenti il Comune vuole continuare a destinare all’abitare sociale? E’ una decisione politica e va presa. 

All’Aquila non si è mai voluto ammettere una cosa che però è sotto gli occhi di tutti. I Progetti case sono diventati anche le nuove case popolari o almeno negli ultimi anni hanno svolto di certo anche questa funzione. Al di là di come la si pensi, lo sono di fatto, e hanno bisogno di servizi e meno precarietà, non di fornitura di elettrodomestici.

Certo possono e dovrebbero essere eterogeneamente  composti a livello abitativo per non creare dei quartieri-ghetto, e ben vengano allora gli studenti del servizio civile e altre iniziative, ma la domanda resta: quante di queste case il comune ha intenzione restino ad uso di housing sociale? Magari si potrebbe commistionare la gestione con la stessa Ater, l’ente provinciale delle case popolari in ritardo sulla ricostruzione, come tutta la ricostruzione pubblica. Anzi magari non è necessario ricostruire tutte le case popolari, ma far investire l’ATER su Coppito 3 ad esempio.

E poi appunto “Coppito 3” , ma un quartiere può chiamarsi così? 

E’ necessario, oltre che su quello tecnico, lavorare sul piano sociale favorendo lo sviluppo negli abitanti di questi quartieri  un minimo di senso di identità e di appartenenza che invogli al prendersi cura e alla ricerca di un abitare degno.

Farli restare dei luoghi pensati solo come temporanei, abbandonati dalle istituzioni e senza servizi, di certo non promuove la partecipazione e per esempio la voglia di pagare i canoni di locazione o restituire le somme legate alle utenze e anticipate dal Comune all’Amministrazione. 

Come sostenuto da tempo, ci sarebbe bisogno di una “casa del quartiere” in cui i cittadini possano rivolgersi, luoghi sociali dove poter partecipare anche a livello volontario e che anche le amministrazioni separate potrebbero aiutare a co gestire, che aiuterebbero l’amministrazione centrale a intercettare i bisogni e allo stesso tempo ad analizzare e dare una risposta al disagio e le sue conseguenze. 

Aiuterebbe a capire per esempio – anche tramite la collaborazione degli stessi cittadini – chi abita le abitazioni, a fare un censimento, a rilevare se una condizione di fragilità non è più tale e a far spazio eventualmente a quella nuova che ha bisogno.

I quartieri sono lì, si demolisca pure la parte che non serve, cosa affatto banale, ma quella che resta deve poter esser governata dall’amministrazione proprietaria per quanto se ne riesca a cedere una parte a terzi. 

Ormai sono stati costruiti quando c’era chi, dopo il sisma, diceva – a ben vedere pare – che sarebbe stato meglio allestire molte più soluzioni abitative esplicitamente temporanee, leggere e rimovibili, per non consumare troppo suolo e restare una città sostenibile.

Non solo non è stato fatto, anzi poi i 19 quartieri “durevoli” come furono definiti allora – ma ormai urbanizzati e impiantati su piastre destinate a restare nel tempo – sono finiti nel patrimonio comunale nel 2012 come regalo della Protezione civile e dell’Amministrazione Cialente.

Non resta che farsene una ragione e interrompere il loop che vede l’Amministrazione perennemente impegnata a risolvere i problemi del passato, sempre all’inseguimento. E’ necessario interrompere il loop.

Alessandro Tettamanti

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